L'allenamento della forza può proteggere dall’Alzheimer

Donna matura si esrecita con i mabubri
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A cura della Redazione
Venerdì, Febbraio 3, 2023
Un recente studio australiano ha mostrato, per la prima volta, che l’allenamento per la forza può rallentare, e addirittura arrestare per un lungo periodo, la degenerazione in aree cerebrali particolarmente vulnerabili alla diffusa malattia neurodegenerativa.

L'Università di Sydney ha recentemente condotto uno studio clinico su un campione composto da persone anziane ad alto rischio di ammalarsi di Alzheimer a causa di un deterioramento cognitivo lieve, scoprendo che sei mesi di allenamento della forza può contribuire a proteggere le aree del cervello particolarmente vulnerabili a questa diffusa patologia neurodegenerativa per addirittura un anno. Il deterioramento cognitivo lieve – che comporta un declino della memoria e di altre capacità di pensiero, lasciando generalmente intatte le capacità della vita quotidiana – è uno dei maggiori fattori di rischio per la demenza.

Alle persone coinvolte nello studio è stato assegnato, in modo casuale, uno di questi tre compiti, da svolgere per sei mesi: allenamento cerebrale co l’utilizzo di un computer; allenamento della forza; allenamento cerebrale con l’utilizzo di un computer associato all’allenamento della forza. L'attività svolta in palestra (appena 90 minuti alla settimana spalmati su 2 o 3 sessioni supervisionate da un trainer)  ha complessivamente prodotto i benefici maggiori sul piano delle prestazioni cognitive, fungendo da fattore protettivo nei confronti della degenerazione in specifiche sotto-regioni dell'ippocampo, struttura cerebrale complessa che svolge un ruolo importante nell'apprendimento e nella memoria.

L'allenamento della forza ha stimolato le sotto-regioni dell'ippocampo più vulnerabili al morbo di Alzheimer e nel gruppo di controllo, composto da coloro che non hanno svolto tale attività, queste aree si sono ridotte del 3-4% nei 18 mesi dello studio (6 di sperimentazione e 12 di osservazione), mentre in coloro che l’hanno svolta tale riduzione è stata solo dell'1-2% (e del tutto assente in altre aree).

Per giungere a tali conclusioni, i ricercatori hanno sottoposto i partecipanti a risonanze magnetiche durante tutto l’anno e mezzo di studio e analizzando le immagini ottenute hanno potuto quantificare, grazie ai recenti progressi di tale tecnologia diagnostica, i cambiamenti avvenuti nelle sotto-regioni all'interno dell'ippocampo, il fulcro della memoria del cervello.

 

 

 

 

 

 

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